EXALLIEVI DI DON BOSCO
Giuliano Molinari, exallievo, riflette sulla propria esperienza salesiana
La mia grande fortuna
Sono nato il 24 marzo 1941 a Perugia, proprio in Porta S. Angelo, in corso Garibaldi, 212 per la precisione, in una famiglia di operai. Cento metri più su di via della Cera, dove dal 1922 c’erano i salesiani. E questa è stata la mia grande fortuna: non potevo non andare all’oratorio. Sono salesiano dalla nascita.
Oratorio: la più bella cosa di Don Bosco
L’oratorio è stato il luogo dove abbiamo giocato a pallone, dove abbiamo recitato, dove ci siamo preparati alla prima comunione, dove abbiamo cimentato le amicizie che contano, dove abbiamo praticato la solidarietà e mostrato con dignità e orgoglio la nostra condizione di figli di operai e tant’altro ancora. Ma è stato anche l’ambiente che ha consentito a molti di sviluppare le proprie passioni, di provare a realizzare i propri sogni o quanto meno di cercare le basi per affermare la propria personalità. Lì abbiamo imparato per la prima volta a metterci in gioco, ad assumere responsabilità.
Mi sento tutt’ora un allievo
Non mi piace scrivere il mio profilo di ex allievo perché, malgrado gli ottanta anni, io mi sento tutt’ora un allievo, meglio un oratoriano e sono pronto a rivivere il cortile con i suoi mille giochi, le tante discussioni, gli scherzi, le risate, i canti. Ricordo anche le abrasioni sulla pelle per le cadute e poi, a fine giornata, la sporcizia delle mie ginocchia e delle mie mani con la mamma che minacciava di fare il bucato, dei miei indumenti, senza spogliarmi. Sono ancora interessato al pensiero delle buona notte, breve ma incisivo e che parlava all’anima, ma dettava anche norme di comportamento, di sana educazione. I salesiani volevano che diventassimo buoni cristiani e onesti cittadini e allora riducevano, nei momenti canonici, le parole all’essenziale, ma poi stavano con noi tutto il giorno e avevano modo di parlare e di starci a sentire. Anche le preghiere erano poche nel corso della giornata e si recitavano all’imbrunire e non in chiesa, quasi per non rubare spazio alle molteplici attività oratoriane messe in campo nei cortili e nel salone. A tale riguardo ho sempre presente che durante la messa domenicale, celebrata in latino, fino al vangelo l’assistente ci faceva recitare le preghiere del mattino. Allora lo trovavo normale, ora lo trovo curioso, singolare.
L’amorevolezza e l’allegria
In questo ambiente abbiamo sperimentato sulla nostra pelle il metodo educativo di Don Bosco, che ha due capisaldi: l’amorevolezza e l’allegria. Dove amorevolezza vuol dire un sorriso, una carezza, una parola buona, un suggerimento disinteressato, ma anche condividere una gioia o una preoccupazione. E ancora, più semplicemente, significa prestare attenzione all’altro senza farlo pesare e senza rivendicare per sé alcun merito.
La sintesi dello spirito salesiano
Tutto questo, diceva Don Bosco, deve essere realizzato in allegria, in serenità, con sincero spirito di amicizia, per mettere il giovane a suo agio, proprio come abbiamo appreso, in tutto il tempo che siamo stati all’oratorio, dall’esempio dei tanti salesiani che si sono presentati sul quel proscenio e che in ogni tempo sono stati capaci di lasciare ai ragazzi il gusto della scoperta, il piacere della sorpresa, la gioia della conquista. La loro personalità, il loro modo di relazionarsi con gli altri, mi ha sempre suggerito l’idea di un santo, Don Bosco, che, attraverso i suoi preti, ha continuato ad insegnare a tutti come bisogna vivere l’avventura della vita.
Con questo convincimento nel cuore e nella mente, come fanno i bambini con i grandi, anch’io dico: grazie a Don Bosco, grazie ai salesiani.
Giuliano Molinari
Perugia, 24 marzo 2021